“Non poteva più permettersi le cure”: assurdo, hanno fatto morire l’ex professionista a soli 32 anni | Dopo aver contratto la malattia, il club l’ha abbandonato lasciandolo al verde
Una fine inaccettabile, per la quale sono tutti colpevoli: nel terzo millennio un calciatore può morire di malattia e povertà.
Ingaggi da sogno, attraverso i quali potersi pagare auto di lusso, ville da favola e in generale un tenore di vita inimmaginabile per un classico “comune mortale”. Luoghi comuni o realtà? C’è ovviamente del vero, ma non vale certo per tutti.
Ieri come oggi, e come inevitabile che sia in ogni sfera professionale, anche nel ricco mondo dello sport a decidere le “classi sociali” è almeno in parte la meritocrazia. I più bravi… fanno carriera e guadagnano molto, chi dimostra sul campo di non poter ambire a grandi livelli si deve accontentare di stipendi più normali.
Non ci sarebbe appunto nulla di strano dal momento che questa è la dura e impietosa, ma allo stesso tempo anche logica, legge del mondo del lavoro. Se non fosse che nello sport e nel calcio in particolare la distanza tra vertice e base della piramide è troppo ampia. Lo era un tempo, quando gli stipendi, pur sostenuti, erano più umani, lo è a maggior ragione oggi.
Da troppi anni, infatti, il mondo del pallone è dorato, anzi di platino, per un’élite piuttosto ristretta e di un bell’argento per una fetta discretamente numerosa. Poi, però, mano a mano che si scende, non necessariamente di categoria, gli zeri diminuiscono sempre più.
Vivere di calcio? Una fortuna per pochi eletti: una storia che fa riflettere
Sostenere che un calciatore di medio-basso livello di un paese calcisticamente non evoluto guadagna quanto un operaio può sembrare una provocazione, ma quando si viene a conoscenza di tragedie come quella che ha riguardato Diego Mendieta si resta sbigottiti per il fatto che i piani alti del pallone, sindacati e non solo, siano restati impassibili di fronte a una vera e propria barbarie.
Il cognome è quello di una meteora di inizio millennio, diventato famoso nel Valencia di Cuper e poi sbarcato nella Lazio con poca fortuna. Diego, però, di fortuna ne ha avuta pochissima anche nella vita, perfino in patria. Paraguaiano, classe ’80, per provare a sfondare Mendieta dovette trasferirsi in paesi calcisticamente periferici, Malesia prima e Indonesia poi.
Senza stipendi e aggredito dalla malattia, il campione mancato muore nell’indifferenza
Di ruolo attaccante, gol non ne arrivarono molti negli appena tre anni che il destino gli concesse per arrivare a esprimere il proprio talento. Purtroppo anche di soldi Mendieta ne vide pochi, dal momento che il Persis Solo, il club indonesiano in cui approdò, fu travolto da un dissesto finanziario che impedì ai dirigenti di pagare gli ingaggi più elevati, come quello di Diego.
Lontano da casa e pure senza soldi per ben quattro mensilità, Mendieta fu aggredito dal citomegalovirus, un genere di virus appartenente alla famiglia degli herpesviridae. Nulla di irreparabile, a patto però di avere i fondi per curarsi. A Diego iniziarono a scarseggiare anche quelli e il Persis non seppe aiutarlo neppure di fronte a questo dramma. Nessuno, in verità, né alla Fifa, né in Paraguay, si impietosì al punto che nel dicembre 2012 Mendieta morì nell’indifferenza e nella solitudine più assolute, solo per non essersi potuto permettere le cure per una malattia tutt’altro che invincibile. Di calcio si può morire anche nel nuovo millennio.